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Diritti della natura (o Pacha Mama)

Capítulo séptimo
Derechos de la naturaleza

Art. 71.- La naturaleza o Pacha Mama, donde se reproduce y realiza la vida, tiene derecho a que se respete integralmente su existencia y el mantenimiento y regeneración de sus ciclos vitales, estructura, funciones y procesos evolutivos. Toda persona, comunidad, pueblo o nacionalidad podrá exigir a la autoridad pública el cumplimiento de los derechos de la naturaleza. Para aplicar e interpretar estos derechos se observaran los principios establecidos en la Constitución, en lo que proceda. El Estado incentivará a las personas naturales y jurídicas, y a los colectivos, para que protejan la naturaleza, y promoverá el respeto a todos los elementos que forman un ecosistema.

Art. 72.- La naturaleza tiene derecho a la restauración. Esta restauración será independiente de la obligación que tienen el Estado y las personas naturales o jurídicas de Indemnizar a los individuos y colectivos que dependan de los sistemas naturales afectados. En los casos de impacto ambiental grave o permanente, incluidos los ocasionados por la explotación de los recursos naturales no renovables, el Estado establecerá los mecanismos más eficaces para alcanzar la restauración, y adoptará las medidas adecuadas para eliminar o mitigar las consecuencias ambientales nocivas.

Art. 73.- EI Estado aplicará medidas de precaución y restricción para las actividades que puedan conducir a la extinción de especies, la destrucción de ecosistemas o la alteración permanente de los ciclos naturales. Se prohíbe la introducción de organismos y material orgánico e inorgánico que puedan alterar de manera definitiva el patrimonio genético nacional.

Art. 74.- Las personas, comunidades, pueblos y nacionalidades tendrán derecho a beneficiarse del ambiente y de las riquezas naturales que les permitan el buen vivir. Los servicios ambientales no serán susceptibles de apropiación; su producción, prestación, uso y aprovechamiento serán regulados por el Estado.

(Constitución del Ecuador, 2008)

Bollire una società

©DonkeyHotey – CC BY-SA

Here is how to boil a frog. Place the frog in a pan of tepid water. Raise the temperature so gradually that the frog does not realize it is being cooked. It may even fall into a stupor, as a person might in a hot bath. Eventually it will die. According to experiments done in the nineteenth century, you can indeed boil a frog this way. Biologists today claim that you can’t. Either way, please don’t try it.
Boiling a frog is a metaphor for the problem we all have perceiving changes that are gradual but cumulatively significant, that may creep up and have devastating consequences: a little increase here, a little there, then later some more. Nothing changes very much and things seem normal. Then one day the accumulation of changes causes the appearance of normality to disappear. Suddenly things have changed a great deal. The world is different, and it has been altered in a manner that may not be pleasant. […]
We know how to boil a frog. Complexification is how to boil a society. Complexity grows by small steps, each seemingly reasonable, each a solution to a genuine problem. We can afford the cost of each increment. It is the cumulative costs that do the damage, for the costs of solving previous problems have not gone away and now we are adding to them. The temperature increases sensibly and we are lulled into complacency. Eventually these costs drive a society into insolvency. A few people always foresee the outcome, and always are ignored.
Complexity is not intrinsically good or bad. It is useful and affordable, or it is not. [C]omplexity can affect societies negatively, producing catastrophes […] This is not, however, an inevitable outcome.

Ecco come bollire una rana. Ponete la rana in una pentola con acqua tiepida. Alzate la temperatura così gradualmente che la rana non capisca che sta cuocendo. Potrebbe persino cadere in un torpore, come può succedere ad una persona in un bagno caldo. Alla fine morirà. Secondo degli esperimenti eseguiti nel diciannovesimo secolo, è davvero possibile bollire una rana in questo modo. Oggi i biologi dicono che non è vero. In ogni caso, non provateci, per favore.
Bollire una rana è una metafora per il problema che noi tutti abbiamo nel percepire cambiamenti graduali ma cumulativamente significativi, che possono cogliere di sorpresa e avere consequenze devastanti: un piccolo aumento qui, un po’ di qua, un altro po’ più tardi. Niente cambia granché e le cose sembrano normali. Poi, un giorno, l’accumulo di cambiamenti fa sparire la sembianza di normalità. Improvvisamente le cose sono cambiate parecchio. Il mondo è diverso, ed è stato cambiato in un modo che può non essere piacevole. […]
Sappiamo come bollire una rana. La complessificazione è il modo di bollire una società. La complessità cresce a piccoli passi, ciascuno apparentemente ragionevole, ciascuno una soluzione ad un problema reale. Possiamo permetterci il costo di ciascun aumento. Sono i costi complessivi a fare il danno, poiché il costo delle soluzioni ai problemi precedenti non è ancora estinto e ora ne stiamo aggiungendo altri. La temperatura aumenta in modo ragionevole e ci culliamo nella soddisfazione. Alla fine questi costi spingono la società verso l’insolvenza. Ci sono sempre alcuni che prevedono il risultato, e vengono sempre ignorati.
La complessità non è intrinsecamente buona o cattiva. È utile e ad un prezzo accessibile, o non lo è. […] la complessità può colpire negativamente le società, producendo catastrofi […] Questo però non è un esito inevitabile.

(Joseph A. Tainter & Tadeusz W. Patzek,  Drilling Down – The Gulf Oil Debacle and Our Energy Dilemma, 2011)

Controproducenti

Sadly, malaria is making a comeback in many parts of the Third World, due partly to insecticide-resistant mosquitoes and partly to complacency and political disintegration. Irrigation projects such as dams, reservoirs, and irrigation canals often work well in temperate climates. However, in tropical regions, they may backfire. They create large bodies of stationary water that are ideal breeding grounds for the mosquitoes that carry malaria, yellow fever, and other diseases. The slowly moving water of canals also provides a suitable habitat for water snails that carry the parasitic worms causing schistosomiasis (bilharzia). An example was the spread of schistosomiasis during the Senegal River Basin development in West Africa.

Purtroppo, la malaria sta ritornando in molte parti del Terzo Mondo, a causa in parte delle zanzare resistenti agli insetticidi, e in parte alla rassegnazione e alla disintegrazione politica. I progetti di irrigazione come dighe, bacini e canali irrigui spesso funzionano bene nei climi temperati. Tuttavia, nelle regioni tropicali possono essere controproducenti. Essi creano ampie masse d’acqua stagnante che sono terreno ideale di coltura per le zanzare che portano malaria, febbre gialla e altre malattie. L’acqua in lento movimento dei canali fornisce anche un habitat adatto alle lumache acquatiche che recano i vermi parassiti causa della schistosomiasi (bilharziosi). Un esempio fu la diffusione della schistosomiasi durante lo sviluppo del bacino del fiume Senegal in Africa occidentale.

(David Clark, Germs, Genes, and Civilization, 2010)

Moralità

I said, “I can name for you something that is good, no matter what stories we tell ourselves.”
“And it is…”
I held up my glass. “Drinkable quantities of clean water.”
“I don’t understand.”
“Drinkable quantities of clean water are unqualifiedly a good thing, no matter the stories we tell ourselves.”
She got it. She smiled before saying, “And breathable clean air.”
We both nodded.
She continued, “Without them you die.”
“Exactly,” I said. “Without them, everyone dies.”
Now she was excited. “That’s the anchor,” she said. “We can build an entire morality from there.”
Dissi: “Posso citarti qualcosa che è bene, a prescindere dalle storie che raccontiamo a noi stessi.”
“E sarebbe…”
Alzai il mio bicchiere. “Quantità di acqua pulita sufficienti per essere bevute.”
“Non capisco.”
“Una quantità di acqua pulita sufficiente per essere bevuta è incondizionatamente una cosa buona, a prescindere dalle storie che raccontiamo a noi stessi.”
Aveva capito. Sorrise prima di dire: “E aria pulita e respirabile.”
Entrambi annuimmo.
Continuò, “Senza di esse uno muore.”
“Esattamente,” dissi. “Senza di esse, tutti muoiono.”
Adesso era euforica. “Ecco il punto fermo,” disse. “Possiamo costruire un’intera moralità a partire da lì.”
(Derrick Jensen, Endgame – Volume 1: The Problem of Civilization, 2006)

L’equivoco

The agricultural life, often referred to as “pastoral” or “rural”, seems a natural world to modern-day city dwellers and suburbanites. A weekend drive in the country is a time for relaxing and “going back to nature.” Yet farming is not na- ture, but rather the largest alteration of Earth’s surface from its natural state that humans have yet achieved. Cities and factories and even suburban mega-malls are still trivial dots on maps compared to the extent of farmland devoted to pastures and crops (more than a third of Earth’s land surface). So when those people in Mesopotamia 11,500 years ago created agriculture, they set humanity on a path that would transform nature.

La vita agricola, spesso definita “pastorale” o “rurale”, si presenta come un mondo naturale per gli abitanti delle moderne città e suburbi. Una gita in campagna nel weekend è vista come un momento di relax e di “ritorno alla natura”. Eppure l’agricoltura non è natura, ma piuttosto la maggiore alterazione della superficie della Terra dal suo stato naturale che gli umani abbiano mai realizzato. Le città e le fabbriche, e persino i giganteschi centri commerciali delle periferie sono ancora puntini insignificanti sulle mappe, in confronto all’estensione di terra arabile destinata al pascolo e alle coltivazioni (più di un terzo della superficie delle terre emerse). Quindi, quando quelle genti in Mesopotamia, 11500 anni fa, inventarono l’agricoltura, misero l’umanità su un cammino che avrebbe modificato la natura.

(William F. Ruddiman, Plows, Plagues and Petroleum – how humans took control of climate, 2005)

I limiti dell’ingegno

Historical evidence would indicate that very few key inventions have been made by men who had to spend all their energy overcoming the immediate pressures of survival. Atomic energy was discovered in the laboratories of basic science by individuals unaware of any threat of fossil fuel depletion. The first genetic experiments, which led a hundred years later to high-yield agricultural crops, took place in the peace of a European monastery. Pressing human need may have forced the application of these basic discoveries to practical problems, but only freedom from need produced the knowledge necessary for the practical applications.

La testimonianza storica sembrerebbe indicare che sono state ben poche le invenzioni chiave fatte da uomini obbligati ad impiegare tutte le proprie energie per superare le pressioni immediate per la sopravvivenza. L’energia atomica fu scoperta nei laboratori di scienza pura da individui ignari di alcuna minaccia di esaurimento dei combustibili fossili. I primi esperimenti genetici, che cent’anni dopo condussero a colture agricole ad alte rese, ebbero luogo nella pace di un monastero europeo. La pressione delle necessità umane può aver portato ad applicare queste scoperte teoriche a dei problemi pratici, ma solo la libertà dalle necessità ha prodotto la conoscenza necessaria per le applicazioni pratiche.

(Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III, The Limits to Growth, 1972)

Una catastrofe annuale artificiale

Agriculture is a recent human experiment. For most of human history, we lived by gathering or killing a broad variety of nature’s offerings. Why humans might have traded this approach for the complexities of agriculture is an interesting and long-debated question, especially because the skeletal evidence clearly indicates that early farmers were more poorly nourished, more disease-ridden and deformed, than their hunter-gatherer contemporaries. Farming did not improve most lives. The evidence that best points to the answer, I think, lies in the difference between early agricultural villages and their pre-agricultural counterparts—the presence not just of grain but of granaries and, more tellingly, of just a few houses significantly larger and more ornate than all the others attached to those granaries. Agriculture was not so much about food as it was about the accumulation of wealth. It benefited some humans, and those people have been in charge ever since.

Domestication was also a radical change in the distribution of wealth within the plant world. Plants can spend their solar income in several ways. The dominant and prudent strategy is to allocate most of it to building roots, stem, bark—a conservative portfolio of investments that allows the plant to better gather energy and survive the downturn years. Further, by living in diverse stands (a given chunk of native prairie contains maybe 200 species of plants), these perennials provide services for one another, such as retaining water, protecting one another from wind, and fixing free nitrogen from the air to use as fertilizer. Diversity allows a system to “sponsor its own fertility,” to use visionary agronomist Wes Jackson’s phrase. This is the plant world’s norm.

There is a very narrow group of annuals, however, that grow in patches of a single species and store almost all of their income as seed, a tight bundle of carbohydrates easily exploited by seed eaters such as ourselves. Under normal circumstances, this eggs-in-one-basket strategy is a dumb idea for a plant. But not during catastrophes such as floods, fires, and volcanic eruptions. Such catastrophes strip established plant communities and create opportunities for wind-scattered entrepreneurial seed bearers. It is no accident that no matter where agriculture sprouted on the globe, it always happened near rivers. You might assume, as many have, that this is because the plants needed the water or nutrients. Mostly this is not true. They needed the power of flooding, which scoured landscapes and stripped out competitors. Nor is it an accident, I think, that agriculture arose independently and simultaneously around the globe just as the last ice age ended, a time of enormous upheaval when glacial melt let loose sea-size lakes to create tidal waves of erosion. It was a time of catastrophe.

Corn, rice, and wheat are especially adapted to catastrophe. It is their niche. In the natural scheme of things, a catastrophe would create a blank slate, bare soil, that was good for them. Then, under normal circumstances, succession would quickly close that niche. The annuals would colonize. Their roots would stabilize the soil, accumulate organic matter, provide cover. Eventually the catastrophic niche would close. Farming is the process of ripping that niche open again and again. It is an annual artificial catastrophe, and it requires the equivalent of three or four tons of TNT per acre for a modern American farm. Iowa’s fields require the energy of 4,000 Nagasaki bombs every year.

L’agricoltura è un esperimento recente. Per la maggior parte della storia umana, abbiamo vissuto raccogliendo o uccidendo un’ampia varietà di ciò che offriva la natura. Per quale motivo gli uomini abbiano barattato questo approccio per le complessità dell’agricoltura, è una questione interessante e a lungo dibattuta, soprattutto perché l’evidenza dall’analisi degli scheletri indica chiaramente che i primi contadini erano peggio nutriti e più colpiti da malattie e deformità dei loro contemporanei cacciatori-raccoglitori. L’agricoltura non migliorò la vita della maggior parte delle persone. La prova che indica meglio la risposta, a mio parere, sta nella differenza tra i primi villaggi agricoli e le loro controparti pre-agricole – la presenza non solo di cereali ma di granai e, più eloquentemente, di alcune case decisamente più grandi e più decorate di tutte le altre adiacenti a quei granai. L’agricoltura non riguardava tanto il cibo quanto l’accumulo di ricchezza. Ha giovato ad alcuni umani, e quelle persone da allora sono al potere.

L’addomesticazione fu anche un cambiamento radicale nella distribuzione della ricchezza nel mondo vegetale. Le piante possono spendere il loro introito solare in molti modi. La strategia dominante e più prudente è quella di allocare la maggior parte dell’energia nella costruzione di radici, steli, corteccia – un portafoglio conservativo di investimenti che permette alla pianta di raccogliere meglio l’energia e sopravvivere agli anni negativi. In più, vivendo in situazioni ad elevata biodiversità (un dato pezzo di prateria nativa contiene forse 200 specie vegetali), queste piante perenni forniscono servizi l’una all’altra, come trattenere l’acqua, proteggersi a vicenda dal vento, e fissare l’azoto atmosferico per usarlo come fertilizzante. La varietà permette ad un sistema di “sponsorizzare la propria fertilità”, per usare l’espressione dell’agronomo visionario Wes Jackson. Questa è la norma, nel mondo delle piante.

C’è però un gruppo molto ridotto di piante annuali che cresce in chiazze monospecie e immagazzina quasi tutto il proprio introito nel seme, un pacchetto compatto di carboidrati facilmente sfruttati da mangiatori di semi come noi. In circostanze normali, questa strategia “tutte le uova in un solo paniere” è un’idea stupida per una pianta. Ma non durante catastrofi come inondazioni, incendi ed eruzioni vulcaniche. Questi disastri cancellano le comunità vegetali già stabilite e creano opportunità per le piante portatrici di semi da spargere al vento che siano dotate di iniziativa. Non è un caso che ovunque sia spuntata l’agricoltura nel globo, ciò è sempre accaduto nei pressi dei fiumi. Si può pensare, come molti fanno, che ciò sia capitato perché le piante avevano bisogno dell’acqua o dei nutrienti. In gran parte ciò non è vero. Avevano bisogno della potenza delle inondazioni, che ripuliva il paesaggio e levava di mezzo i concorrenti. Né è un caso, credo, che l’agricoltura sia comparsa indipendentemente e simultaneamente in varie parti di tutto il pianeta proprio alla fine dell’ultima era glaciale, un periodo di grande scompiglio, quando la fusione dei ghiacci lasciò dei laghi grandi come mari liberi di creare maree erosive. Era un tempo di catastrofi.

Sono adatti alle catastrofi, in particolar modo, il mais, il riso e il frumento. È la loro nicchia ecologica. Nello schema naturale delle cose, una catastrofe creerebbe una tabula rasa, del suolo denudato, che sarebbe per loro vantaggioso. Quindi, in circostanze normali, ci sarebbe una successione che chiuderebbe velocemente quella nicchia. Le piante annuali la colonizzerebbero. Le loro radici stabilizzerebbero il suolo, accumulerebbero materia organica, fornirebbero una copertura. Alla fine la nicchia ecologica dovuta alla catastrofe si chiuderebbe. La coltivazione è il processo che squarcia ripetutamente quella nicchia per riaprirla. È una catastrofe annuale artificiale, e richiede l’equivalente di tre o quattro tonnellate di tritolo per acro in una fattoria americana odierna. I campi dell’Iowa richiedono ogni anno l’energia di 4000 bombe di Nagasaki.

The oil we eat: Following the food chain back to Iraq—By Richard Manning (Harper’s Magazine)

Tikopia

In addition to their islandwide system of multistory orchards and fields, social adaptations sustained the Tikopian economy. Most important, the islanders’ religious ideology preached zero population growth. Under a council of chiefs who monitored the balance between the human population and natural resources, Tikopians practiced draconian population control based on celibacy, contraception, abortion, and infanticide, as well as forced (and almost certainly suicidal) emigration.
Arrival of Western missionaries upset the balance between Tikopia’s human population and its food supply. In just two decades the island’s population shot up by 40 percent after missionaries outlawed traditional population controls. When cyclones wiped out half the island’s crops in two successive years, only a massive relief effort prevented famine. Afterward, the islanders restored the policy of zero population growth, this time based on the more Western practice of sending settlers off to colonize other islands.

In aggiunta al sistema di frutteti e campi su più livelli esteso a tutta l’isola, l’economia di Tikopia era sostenuta da adattamenti sociali. Soprattutto, l’ideologia religiosa degli isolani predicava la crescita demografica zero. Sotto un consiglio di capi che controllava l’equilibrio tra la popolazione umana e le risorse naturali, i Tikopiani praticavano un controllo demografico draconiano basato sul celibato, la contraccezione, l’aborto e l’infanticidio, oltre che con l’emigrazione forzata (e quasi sicuramente suicida).
L’arrivo dei missionari occidentali turbò l’equilibrio tra la popolazione di Tikopia e i loro approvvigionamenti di cibo. In appena due decenni la popolazione dell’isola aumentò del 40%, dopo che i missionari ebbero bandito i metodi tradizionali di controllo demografico. Quando i cicloni spazzarono via metà dei raccolti dell’isola per due anni di seguito, solo un enorme sforzo dei soccorsi impedì la carestia. Successivamente, gli isolani ristabilirono la politica della crescita zero, questa volta basata sulla pratica ben più occidentale di inviare gente a colonizzare altre isole.

(David R. Montogomery, Dirt – The erosion of civilizations, 2007)

Reinventare l’alienazione

The fact that the ideological distinction is artificial was first spotted by Albert Camus, who pointed out that both Western industrialism and its communist version achieve similar results through similar means – industrialization and specialization of labor. In the 1950s, in Défence de L’Homme Révolté, Camus accurately predicted that if the communist experiment were to fail, this would be misunderstood as an ideological victory by the West.
Camus also indicated a specific failure of both systems: their inability to provide creative, meaningful work. We see this failure in the very high rates of depression. We attempt to define depression as a psychological ailment, but it is a symptom of a cultural failure: the inability to make life meaningful or enjoyable. Depression in the face of depressing circumstances is a symptom of unconscious rebellion. Although the rebellious can and are medicated into submission, this does not address the underlying problem.

Che la distinzione ideologica sia artificiale fu notato per la prima volta da Albert Camus, il quale evidenziò che sia l’industrialismo occidentale che la sua versione comunista raggiungono risultati simili con mezzi simili – industrializzazione e specializzazione del lavoro. Negli anni ’50, in Défence de L’Homme Révolté, Camus predisse con accuratezza che se l’esperimento comunista fosse fallito, ciò sarebbe stato frainteso come una vittoria ideologica dell’Occidente.
Camus indicò anche un preciso fallimento di entrambi i sistemi: la loro incapacità di offrire un lavoro creativo e dotato di significato. Questo fallimento è evidente negli alti tassi di depressione. Si cerca di definire la depressione come un disturbo psicologico, ma è un sintomo di fallimento culturale: l’incapacità di rendere la vita sensata o piacevole. La depressione di fronte a circostante deprimenti è un sintomo di ribellione inconscia. Anche se i ribelli possono essere e sono curati perché si sottomettano, ciò non affronta il problema soggiacente.

(Dmitry Orlov, Reinventing Collapse – The Soviet Example and American Prospects, 2008)