I sentimenti collettivi di insicurezza

Memmo Carotenuto e Vittorio Gassman ne "I soliti ignoti" (1958)

Memmo Carotenuto e Vittorio Gassman ne “I soliti ignoti” (1958)

Ciò che appare davvero sorprendente, e che dà senso a quel che accade — sul versante della giustizia penale e del carcere — in tutto il ventennio [1990-2010] è il mutamento dell’opinione pubblica (o in come essa viene rappresentata). Quella stessa società civile che per i primi quarant’anni della storia dell’Italia repubblicana ha tollerato, senza mai farne ragione di scandalo, il governo del sistema penale e penitenziario sulla base dell’uso routinario della clemenza, diventato un τόπος della commedia all’italiana (amnistiato era il Memmo Carotenuto de I soliti ignoti così come Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana), avverte ora come intollerabile il ricorso ad un simile strumento, mostrando piuttosto una propensione opposta, alla severità nel giudizio penale così come nell’esecuzione.
Concludendo la sua ricostruzione della criminalità punita nell’Italia del XX secolo, limitata temporalmente più o meno da dove siamo partiti noi, cioè nella prima metà degli anni Novanta, Massimo Pavarini notava che lungo tutta la seconda metà del Novecento la peculiarità della situazione italiana poteva essere individuata nel fatto che la domanda di penalità era stata debole a livello sociale: «per lungo tempo e diversamente da quanto è dato registrare in altre realtà nazionali, i sentimenti collettivi di insicurezza hanno avuto modo di esprimersi come domanda politica di cambiamento». E quindi «la comunicazione sociale attraverso il vocabolario della politica ha favorito una costruzione sociale del disagio e del conflitto al di fuori delle categorie morali della colpa e della pena». Questa eccezione, se di eccezione si è trattato, viene meno nell’Italia di fine secolo.
L’iniziativa di Craxi sulla droga fu anticipatrice. Poi, per tutto il corso del ventennio, dominante è stata l’associazione del fenomeno dell’immigrazione con quello della criminalità e il continuo ritornare dell’insicurezza urbana, fino al riconoscimento legale (ma, per fortuna, ineffettivo) delle ronde dei cittadini.
Sotto la coltre del conflitto politica-giustizia messo in scena ai piani alti del sistema istituzionale, si consumava quindi uno spostamento di fuoco delle politiche penali e di sicurezza verso il controllo e la repressione della marginalità sociale. Il tema non è nuovo e non è peculiare della vicenda italiana. Zygmunt Bauman l’ha sintetizzato nel rovesciamento del freudiano disagio della civiltà moderna: nella modernità liquida, il mutamento di equilibrio tra libertà e sicurezza produce una domanda di protezione dei rischi della libertà indirizzato il controllo dei marginali, individuati come fattori di turbativa di un precario equilibrio sociale. Il governo non contro ma attraverso il crimine (e le risorse politico simboliche che la lotta ad esso offre) diventa una straordinaria risorsa di legittimazione di un sistema politico incapace di performances significative e privo di una legittimazione sociale forte.
Se vincenti sono i canoni populistici della democrazia immediata, il diritto e giustizia penale costituiscono una risorsa essenziale per tenere viva una connessione tra potere e popolo. Il diritto penale è diritto simbolico per eccellenza: nonostante ogni cautela garantista esso mette in scena la vendetta contro chi ha infranto la legge, ha turbato l’ordine costituito, ha minacciato la comunità. «La pena — scriveva Durkheim — non serve ­— o non serve che secondariamente — a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori; da questo punto di vista è giustamente dubbia, e in ogni caso mediocre. La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità».
Nello sgretolamento del modello sociale protettivo che era stato del welfare europeo della seconda metà del Novecento, il linguaggio della colpa e della pena, le istituzioni penitenziarie e quello del controllo sociale coattivo sono tornati in auge a compensare il disorientamento della civiltà post-moderna e la fragilità delle istituzioni.

Stefano Anastasia, “Materialità del simbolico: i depositi del populismo penale nel continuum penitenziario”, in “Populismo penale: una prospettiva italiana”, 2015