Agriculture is a recent human experiment. For most of human history, we lived by gathering or killing a broad variety of nature’s offerings. Why humans might have traded this approach for the complexities of agriculture is an interesting and long-debated question, especially because the skeletal evidence clearly indicates that early farmers were more poorly nourished, more disease-ridden and deformed, than their hunter-gatherer contemporaries. Farming did not improve most lives. The evidence that best points to the answer, I think, lies in the difference between early agricultural villages and their pre-agricultural counterparts—the presence not just of grain but of granaries and, more tellingly, of just a few houses significantly larger and more ornate than all the others attached to those granaries. Agriculture was not so much about food as it was about the accumulation of wealth. It benefited some humans, and those people have been in charge ever since.
Domestication was also a radical change in the distribution of wealth within the plant world. Plants can spend their solar income in several ways. The dominant and prudent strategy is to allocate most of it to building roots, stem, bark—a conservative portfolio of investments that allows the plant to better gather energy and survive the downturn years. Further, by living in diverse stands (a given chunk of native prairie contains maybe 200 species of plants), these perennials provide services for one another, such as retaining water, protecting one another from wind, and fixing free nitrogen from the air to use as fertilizer. Diversity allows a system to “sponsor its own fertility,” to use visionary agronomist Wes Jackson’s phrase. This is the plant world’s norm.
There is a very narrow group of annuals, however, that grow in patches of a single species and store almost all of their income as seed, a tight bundle of carbohydrates easily exploited by seed eaters such as ourselves. Under normal circumstances, this eggs-in-one-basket strategy is a dumb idea for a plant. But not during catastrophes such as floods, fires, and volcanic eruptions. Such catastrophes strip established plant communities and create opportunities for wind-scattered entrepreneurial seed bearers. It is no accident that no matter where agriculture sprouted on the globe, it always happened near rivers. You might assume, as many have, that this is because the plants needed the water or nutrients. Mostly this is not true. They needed the power of flooding, which scoured landscapes and stripped out competitors. Nor is it an accident, I think, that agriculture arose independently and simultaneously around the globe just as the last ice age ended, a time of enormous upheaval when glacial melt let loose sea-size lakes to create tidal waves of erosion. It was a time of catastrophe.
Corn, rice, and wheat are especially adapted to catastrophe. It is their niche. In the natural scheme of things, a catastrophe would create a blank slate, bare soil, that was good for them. Then, under normal circumstances, succession would quickly close that niche. The annuals would colonize. Their roots would stabilize the soil, accumulate organic matter, provide cover. Eventually the catastrophic niche would close. Farming is the process of ripping that niche open again and again. It is an annual artificial catastrophe, and it requires the equivalent of three or four tons of TNT per acre for a modern American farm. Iowa’s fields require the energy of 4,000 Nagasaki bombs every year.
L’agricoltura è un esperimento recente. Per la maggior parte della storia umana, abbiamo vissuto raccogliendo o uccidendo un’ampia varietà di ciò che offriva la natura. Per quale motivo gli uomini abbiano barattato questo approccio per le complessità dell’agricoltura, è una questione interessante e a lungo dibattuta, soprattutto perché l’evidenza dall’analisi degli scheletri indica chiaramente che i primi contadini erano peggio nutriti e più colpiti da malattie e deformità dei loro contemporanei cacciatori-raccoglitori. L’agricoltura non migliorò la vita della maggior parte delle persone. La prova che indica meglio la risposta, a mio parere, sta nella differenza tra i primi villaggi agricoli e le loro controparti pre-agricole – la presenza non solo di cereali ma di granai e, più eloquentemente, di alcune case decisamente più grandi e più decorate di tutte le altre adiacenti a quei granai. L’agricoltura non riguardava tanto il cibo quanto l’accumulo di ricchezza. Ha giovato ad alcuni umani, e quelle persone da allora sono al potere.
L’addomesticazione fu anche un cambiamento radicale nella distribuzione della ricchezza nel mondo vegetale. Le piante possono spendere il loro introito solare in molti modi. La strategia dominante e più prudente è quella di allocare la maggior parte dell’energia nella costruzione di radici, steli, corteccia – un portafoglio conservativo di investimenti che permette alla pianta di raccogliere meglio l’energia e sopravvivere agli anni negativi. In più, vivendo in situazioni ad elevata biodiversità (un dato pezzo di prateria nativa contiene forse 200 specie vegetali), queste piante perenni forniscono servizi l’una all’altra, come trattenere l’acqua, proteggersi a vicenda dal vento, e fissare l’azoto atmosferico per usarlo come fertilizzante. La varietà permette ad un sistema di “sponsorizzare la propria fertilità”, per usare l’espressione dell’agronomo visionario Wes Jackson. Questa è la norma, nel mondo delle piante.
C’è però un gruppo molto ridotto di piante annuali che cresce in chiazze monospecie e immagazzina quasi tutto il proprio introito nel seme, un pacchetto compatto di carboidrati facilmente sfruttati da mangiatori di semi come noi. In circostanze normali, questa strategia “tutte le uova in un solo paniere” è un’idea stupida per una pianta. Ma non durante catastrofi come inondazioni, incendi ed eruzioni vulcaniche. Questi disastri cancellano le comunità vegetali già stabilite e creano opportunità per le piante portatrici di semi da spargere al vento che siano dotate di iniziativa. Non è un caso che ovunque sia spuntata l’agricoltura nel globo, ciò è sempre accaduto nei pressi dei fiumi. Si può pensare, come molti fanno, che ciò sia capitato perché le piante avevano bisogno dell’acqua o dei nutrienti. In gran parte ciò non è vero. Avevano bisogno della potenza delle inondazioni, che ripuliva il paesaggio e levava di mezzo i concorrenti. Né è un caso, credo, che l’agricoltura sia comparsa indipendentemente e simultaneamente in varie parti di tutto il pianeta proprio alla fine dell’ultima era glaciale, un periodo di grande scompiglio, quando la fusione dei ghiacci lasciò dei laghi grandi come mari liberi di creare maree erosive. Era un tempo di catastrofi.
Sono adatti alle catastrofi, in particolar modo, il mais, il riso e il frumento. È la loro nicchia ecologica. Nello schema naturale delle cose, una catastrofe creerebbe una tabula rasa, del suolo denudato, che sarebbe per loro vantaggioso. Quindi, in circostanze normali, ci sarebbe una successione che chiuderebbe velocemente quella nicchia. Le piante annuali la colonizzerebbero. Le loro radici stabilizzerebbero il suolo, accumulerebbero materia organica, fornirebbero una copertura. Alla fine la nicchia ecologica dovuta alla catastrofe si chiuderebbe. La coltivazione è il processo che squarcia ripetutamente quella nicchia per riaprirla. È una catastrofe annuale artificiale, e richiede l’equivalente di tre o quattro tonnellate di tritolo per acro in una fattoria americana odierna. I campi dell’Iowa richiedono ogni anno l’energia di 4000 bombe di Nagasaki.
The oil we eat: Following the food chain back to Iraq—By Richard Manning (Harper’s Magazine)