Tag: picco delle risorse

Usurai

Siamo gli usurai del nostro pianeta:

In a lecture to the Royal Academy of Engineering in May, Professor Rod Smith of Imperial College explained that a growth rate of 3% means economic activity doubles in 23 years. At 10% it takes just seven years. This we knew. But Smith takes it further. With a series of equations he shows that “each successive doubling period consumes as much resource as all the previous doubling periods combined”. In other words, if our economy grows at 3% between now and 2040, we will consume in that period economic resources equivalent to all those we have consumed since humans first stood on two legs. Then, between 2040 and 2063, we must double our total consumption again.

In una conferenza alla Royal Academy of Engineering nel maggio scorso, il professor Rod Smith dell’Imperial College ha spiegato che una crescita del 3% significa che l’attività economica raddoppia in 23 anni. Al 10%, impiega solo 7 anni. Questo lo sapevamo. Ma Smith non si ferma qui. Con una serie di equazioni mostra che “ogni successivo periodo di raddoppiamento consuma tante risorse quanto tutti i precedenti periodi di raddoppiamento combinati”. In altre parole, se la nostra economia cresce del 3% da adesso al 2040, in quel periodo consumeremo risorse economiche equivalenti a tutte quelle che abbiamo consumato da quando l’uomo per la prima volta si è alzato su due gambe. Poi, tra il 2040 e il 2063, dobbiamo raddoppiare di nuovo il nostro consumo totale.

George Monbiot: This crisis demands a reappraisal of who we are and what progress means | The Guardian, 4 dicembre 2007

Dan Barber e una domanda mal posta

And when you suggest these are the things that will insure the future of good food, someone somewhere stands up and says, “Hey guy, I love pink flamingos, but how are you going to feed the world? How are you going to feed the world?” Can I be honest? I don’t love that question. No, not because we already produce enough calories to more than feed the world. One billion people will go hungry today. One billion — that’s more than ever before — because of gross inequalities in distribution, not tonnage. Now, I don’t love this question because it’s determined the logic of our food system for the last 50 years. Feed grain to herbivores, pesticides to monocultures, chemicals to soil, chicken to fish, and all along agribusiness has simply asked, “If we’re feeding more people more cheaply, how terrible could that be?” That’s been the motivation. It’s been the justification. It’s been the business plan of American agriculture. We should call it what it is, a business in liquidation, a business that’s quickly eroding ecological capital that makes that very production possible.

E quando dici che queste sono le cose che assicureranno il futuro del buon cibo qualcuno da qualche parte si alza e dice, “Ehi tu, anche a me piacciono i fenicotteri rosa, ma come pensi di poter nutrire il mondo intero? Come pensi di poter nutrire il mondo?” Posso essere sincero? È una domanda che non mi piace. No, non perché produciamo già più che abbastanza calorie da poter nutrire il mondo. Un miliardo di persone oggi soffrono la fame. Un miliardo – più di quante ci siano mai state – a causa delle enormi diseguaglianze nella distribuzione, non per la quantità complessiva. Vedete, non mi piace questa domanda perché ha determinato la logica del nostro sistema alimentare negli ultimi 50 anni. Dare cereali agli erbivori pesticidi alle monoculture, sostanze chimiche ai terreni, pollo ai pesci, e in tutto questo periodo l’industria agricola ha semplicemente chiesto “Se riusciamo a nutrire più persone in modo più economico, cosa c’è di sbagliato in quello che facciamo?” Questa è stata la motivazione. È stata la giustificazione. È stato il piano di business dell’agricoltura americana. Dovremmo chiamarlo per quello che è, un’industria in liquidazione, un’industria che sta velocemente erodendo il capitale ecologico che rende possibile la medesima produzione.

(anche con sottotitoli in italiano)

Tikopia

In addition to their islandwide system of multistory orchards and fields, social adaptations sustained the Tikopian economy. Most important, the islanders’ religious ideology preached zero population growth. Under a council of chiefs who monitored the balance between the human population and natural resources, Tikopians practiced draconian population control based on celibacy, contraception, abortion, and infanticide, as well as forced (and almost certainly suicidal) emigration.
Arrival of Western missionaries upset the balance between Tikopia’s human population and its food supply. In just two decades the island’s population shot up by 40 percent after missionaries outlawed traditional population controls. When cyclones wiped out half the island’s crops in two successive years, only a massive relief effort prevented famine. Afterward, the islanders restored the policy of zero population growth, this time based on the more Western practice of sending settlers off to colonize other islands.

In aggiunta al sistema di frutteti e campi su più livelli esteso a tutta l’isola, l’economia di Tikopia era sostenuta da adattamenti sociali. Soprattutto, l’ideologia religiosa degli isolani predicava la crescita demografica zero. Sotto un consiglio di capi che controllava l’equilibrio tra la popolazione umana e le risorse naturali, i Tikopiani praticavano un controllo demografico draconiano basato sul celibato, la contraccezione, l’aborto e l’infanticidio, oltre che con l’emigrazione forzata (e quasi sicuramente suicida).
L’arrivo dei missionari occidentali turbò l’equilibrio tra la popolazione di Tikopia e i loro approvvigionamenti di cibo. In appena due decenni la popolazione dell’isola aumentò del 40%, dopo che i missionari ebbero bandito i metodi tradizionali di controllo demografico. Quando i cicloni spazzarono via metà dei raccolti dell’isola per due anni di seguito, solo un enorme sforzo dei soccorsi impedì la carestia. Successivamente, gli isolani ristabilirono la politica della crescita zero, questa volta basata sulla pratica ben più occidentale di inviare gente a colonizzare altre isole.

(David R. Montogomery, Dirt – The erosion of civilizations, 2007)

Ri(n)voluzioni

From 1970 to 1990 the total number of hungry people fell by 16 percent, a decrease typically credited to the green revolution. However, the largest drop occurred in communist China, beyond the reach of the green revolution. The number of hungry Chinese fell by more than 50 percent, from more than 400 million to under 200 million. Excluding China, the number of hungry people increased by more than 10 percent. The effectiveness of the land redistribution of the Chinese Revolution at reducing hunger shows the importance of economic and cultural factors in fighting hunger. However we view Malthusian ideas, population growth remains critical — outside of China, increased population more than compensated for the tremendous growth in agricultural production during the green revolution.

Dal 1970 al 1990 il numero totale di persone sottonutrite scese del 16%, un calo solitamente attribuito alla rivoluzione verde. Però, il crollo maggiore si ebbe nella Cina comunista, al di là della diffusione della rivoluzione verde. Il numero di cinesi sottonutriti diminuì di più del 50%, da più di 400 milioni a meno di 200 milioni. Escludendo la Cina, il numero di persone sottonutrite aumentò di più del 10%. L’efficacia della ridistribuzione della terra della Rivoluzione Cinese nel ridurre la fame mostra l’importanza dei fattori culturali ed economici. In qualunque modo siano viste le idee malthusiane, la crescita della popolazione rimane critica — al di fuori della Cina, l’aumento di popolazione ha più che compensato la straordinaria crescita della produzione agricola durante la rivoluzione verde.

(David R. Montgomery, Dirt – the erosion of civilizations, 2007)

Michael Pollan: dal punto di vista delle piante

And agriculture suddenly appeared to me not as an invention, not as a human technology, but as a co-evolutionary development in which a group of very clever species, mostly edible grasses, had exploited us, figured out how to get us to basically deforest the world.

L’agricoltura improvvisamente non mi è apparsa come un’invenzione, come una tecnologia umana, ma come uno sviluppo coevolutivo in cui un gruppo di specie molto intelligenti, per la maggior parte erbe commestibili, ci ha sfruttato, ha scoperto come fare in modo che noi, essenzialmente, deforestassimo il mondo.

(anche con sottotitoli in italiano)

I Garamanti

L’articolo seguente è comparso originariamente sul blog di ASPO-Italia.

Quella dei Garamanti fu una popolazione berbera che sarebbe stata relegata ad una nota a piè di pagina, o ad un posto di non particolare rilievo negli elenchi di popoli delle versioni di latino, se non ci fossero state sorprendenti scoperte nelle campagne archeologiche condotte nel Fezzan della Libia sudoccidentale. Il loro nome, legato alla capitale Garama (l’attuale Germa), era noto fin dai racconti un po’ fantasiosi di Erodoto, che li descriveva come degli eremiti sprovvisti di armi e ciononostante cacciatori di “Etiopi trogloditi”, che inseguivano a bordo di carri trainati da quattro cavalli; le fonti romane, più tardi, li citano con tono quasi sprezzante, per segnalare i trionfi dell’Urbe contro genti rozze, primitive, dedite alla razzia. Dai ritrovamenti più recenti si sono rivelati invece una vera e propria civiltà, con almeno una decina di centri urbani, dotata di scrittura (un antenato diretto dell’attuale alfabeto Tuareg) e di un’organizzazione statale accentrata, di tipo monarchico, che gli archeologi talvolta si spingono a definire impero.

Il Fezzan, pur essendo in pieno Sahara, non è solo erg, ovvero deserto pianeggiante popolato da enormi dune sabbiose in movimento continuo, come quello che ci è familiare da tanti film. È invece una zona con montagne e altipiani, solcata da numerose valli (wadi) di fiumi scomparsi o torrenti stagionali. I berberi che sarebbero diventati Garamanti, probabilmente, si trovavano già in quei luoghi quando il Sahara era ancora umido e rigoglioso: ma quel periodo stava terminando a favore dell’attuale fase arida. Gli abitanti del Fezzan, da nomadi cacciatori-raccoglitori che erano, risposero ai mutamenti climatici in maniera apparentemente controintuitiva: adottando cioè la pastorizia e l’agricoltura. Può in effetti suonare strano, abituati come siamo a considerare questi modi di produzione come “più avanzati” rispetto a quello “primitivo” delle popolazioni nomadi, che i berberi non avessero sfruttato la fortuna di trovarsi in un Sahara fertile, fintanto che durò, usandolo come terreno agricolo. Il passaggio all’agricoltura come risposta a condizioni (in questo caso climatiche) mutate verso il peggio ricorda invece la posizione espressa da un vecchio articolo di Jared Diamond.
Secondo Diamond il confronto con la situazione degli ultimi cacciatori-raccoglitori rimasti, e i dati che si possono evincere dall’analisi paleopatologica delle sepolture risalenti al periodo di transizione tra vita nomade e modo di produzione agricolo-pastorale, mostra che tale passaggio fu drammatico: l’alimentazione peggiorò in qualità, le epidemie infettive si diffusero col loro tributo di sangue, l’organizzazione sociale virò verso strutture piramidali basate sulla forza e sul furto. Insomma, tanti e tali erano i “contro” dell’agricoltura che essa fu adottata solo come risposta ad una situazione di difficoltà, in cui il modo di vita dei cacciatori-raccoglitori non era più possibile.
La teoria di Diamond può apparire antimoderna e provocatoria, ma in questo caso spiega piuttosto bene la concomitanza temporale tra peggioramento delle condizioni climatiche e l’avvicendamento dei modi di produzione nel caso dei berberi del Fezzan, anche alla luce di una ulteriore difficoltà: nel Sahara che si desertificava, non solo stavano scomparendo la flora e la fauna selvatiche che avevano sostenuto per lungo tempo la sparuta popolazione locale, ma stava venendo meno la base stessa della vita, l’acqua. Le tribù si concentrarono quindi nei pochi luoghi in cui restavano delle sorgenti attive, che ebbero però breve durata, e a quanto pare si esaurirono prima del 1000 a.C.
Il modo di produzione agricolo, pur richiedendo anche maggiori quantità di acqua rispetto allo stile di vita dei nomadi, aveva tuttavia un atout. Permetteva infatti l’elevato grado di complessità sociale necessario perché i berberi potessero recuperare l’acqua dall’unico posto in cui la si può trovare in mezzo ad un deserto: le falde sotterranee. Costruirono quindi una gigantesca rete di foggara, ovvero dei tunnel “quasi orizzontali” che intercettavano le falde sulle alture e sfruttavano la pendenza per convogliare l’acqua verso valle. Pur essendo una tecnica che non richiede grandi quantità di energia per il funzionamento – a differenza dei pozzi verticali in cui bisogna fare lavoro per portare l’acqua al livello del suolo – la costruzione e il mantenimento in attività erano questioni decisamente complicate, soprattutto considerando le proporzioni di cui parliamo: decine di gallerie lunghe anche centinaia di chilometri. Serviva quindi una civiltà di tipo urbano (si calcola che le città fossero almeno una decina) e con un’organizzazione statale e accentrata, quindi sotto il comando di un sovrano: innovazioni che, sempre seguendo Diamond, non sono affatto aliene, ma anzi sempre conseguenti, all’adozione dell’agricoltura.
La tecnica dei foggara fu importata in Nord Africa dalla Persia, dove furono inventati col nome di qanat. Nell'immagine da Wikipedia, uno schema di un tipico qanat, che ne mostra il principio di funzionamento.

La tecnica dei foggara fu importata in Nord Africa dalla Persia, dove furono inventati col nome di qanat. Nell'immagine da Wikipedia, uno schema di un tipico qanat, che ne mostra il principio di funzionamento.

Serviva soprattutto una fonte energetica sufficientemente potente e versatile. Questa, all’epoca, era rappresentata dal lavoro degli schiavi, di cui i Garamanti divennero mercanti, sfruttando con spirito d’intraprendenza molto mediterraneo la vicinanza con Roma e il vantaggio territoriale in un luogo facile da difendere ma difficile da attaccare. I Romani infatti non riuscirono mai a conquistarli, nonostante alcune campagne nel I sec. a.C. e nel I d.C., in cui si ipotizza – le fonti non sono troppo esplicite al riguardo – che il massimo risultato fu quello di ridurre i Garamanti a stato cliente: una sorta di formalizzazione di un rapporto di interdipendenza che sussisteva già da tempo.

In effetti, anzi, i Garamanti durarono più a lungo di Roma: dai ritrovamenti possiamo dedurre che fossero già una potenza in ascesa intorno al 500, quando i Romani erano ancora dominati dagli Etruschi; sopravvissero inoltre all’Impero d’Occidente, tanto da stringere, nel 569 d.C., una tregua con Giustino II di Bisanzio, convertendosi al Cristianesimo. Furono infine conquistati dagli Arabi solo nel 668.
In realtà gli ultimi secoli della loro storia videro un sostanziale declino. È vero che i Garamanti poterono attingere alle falde acquifere per più di 1000 anni, ma alla fine l’acqua finì, o meglio, divenne troppo scarsa e difficile da estrarre. Possiamo immaginare che in questo millennio di storia le tecniche usate venissero affinate, ma ciò non impedì che la risorsa si esaurisse, probabilmente con una curva come quella di Hubbert, e con ritorni decrescenti, in cui ad un certo punto gran parte dell’acqua faticosamente estratta serviva solo a mantenere le strutture sociali e materiali impiegate per recuperarla. Mano a mano che si esaurivano le falde più ricche e “facili”, dovevano essere scavati nuovi foggara, sempre più dispendiosi in termini di lavoro e meno fruttuosi in termini di resa (insomma, l’EROEI nel tempo andò a decrescere). Nel frattempo, il Sahara continuava a desertificarsi e le condizioni ambientali peggioravano. Completava il quadro il declino del principale partner commerciale, l’Impero Romano.
E nonostante 1000 anni di acqua dove non ve ne era, di forza lavoro sotto forma di schiavi, e di “civilizzazione” capace di uno sviluppo agricolo rilevante, i Garamanti non riuscirono a sfuggire alla condanna del mutamento climatico e ai limiti fisiologici della loro situazione. Il cambiamento che avevano apportato al deserto era fragile, basato su una fonte – benché non energetica in senso stretto – non rinnovabile: possiamo definirlo epidermico, troppo effimero e superficiale per essere duraturo. Per analogia con altre curve di crescita e declino, è anche possibile ipotizzare che il “picco” dell’acqua di falda di cui si servivano sia sopraggiunto circa a metà della loro storia, magari proprio intorno al 70 d.C., quando Valerio Festo, a capo di una spedizione punitiva, impose loro lo status di clientes, assoggettandoli quindi ad un tributo. In quell’occasione, i Romani usarono per la prima volta i cammelli in una campagna militare e, secondo Plinio, scoprirono una via più diretta per il Fezzan, quella che ai berberi era ben nota e che usavano per i propri traffici: un segno del fatto che stava venendo meno il vantaggio grazie al quale i Garamanti avevano tenuto testa al più potente impero dell’epoca. Forse si salvarono dalla conquista effettiva perché anche i Romani cominciavano a trovarsi in affanno a gestire l’elevato livello di complessità raggiunto: in altre parole, non era possibile controllare direttamente un territorio così inospitale, e un equilibrio così fragile, senza la spinta dinamica che Roma stava ormai perdendo.
Le dimensioni dell’opera dei Garamanti, intuite solo in tempi recenti, non erano ancora note quando il governo libico di Gheddafi lanciò il progetto del Grande Fiume Artificiale. Questa titanica impresa permette di attingere ad una riserva d’acqua sotterranea, di estensione tanto grande da poter sulla carta durare migliaia d’anni al tasso attuale di sfruttamento. Ma le cose non sono così lineari, come impararono a proprie spese i Garamanti: l’acqua non sarà interamente recuperabile, perché è difficile che si trovi in forma libera, e di solito è contenuta in rocce porose impregnate come spugne. Inoltre, l’estrazione è molto energivora, e se oggi può contare sul petrolio abbondante e a buon mercato, le circostanze non saranno sempre così favorevoli. Infine, prima o poi l’estrazione passerà un picco, e quello che sembrava facile diventerà ogni giorno più difficile.
C’è un epilogo, che se creato per la narrativa o il cinema sarebbe probabilmente didascalico, ma – in quanto reale – non può essere taciuto per amore della forma, anche astenendosi dal volerlo inquadrare in un apologo.Secoli dopo il declino dei Garamanti, in quegli stessi luoghi fu scoperto il petrolio. Il principale giacimento, di oltre mezzo miliardo di barili, è chiamato “Elefante”: non per le sue dimensioni, tutto sommato non eccezionali per gli standard libici, ma per la vicinanza con un petroglifo raffigurante un pachiderma. Uno dei lasciti dei Garamanti del Fezzan, oltre alle centinaia di chilometri di gallerie scavate nelle montagne e ai circa 100.000 condotti verticali usati per la loro costruzione, è infatti una ricca serie di graffiti rupestri risalenti al loro periodo preagricolo: si tratta della collezione più importante dell’Africa e forse tra le più estese al mondo. Il petrolio che viene estratto, insieme con l’acqua del Grande Fiume Artificiale, sta facendo tornare l’agricoltura nel deserto, sotto la curiosa forma di campi circolari giustapposti come se fossero fiches di un megapoker. Ma, nell’imitare i Garamanti, l’estrazione petrolifera sta mettendo a serio rischio il patrimonio artistico dell’antico popolo. Secondo gli esperti i danni causati sono già paragonabili alla perdita dei Buddha di Bamyan, fatti esplodere dai talebani nel 2001.

Le fonti usate per la redazione di questo articolo, oltre ai link segnalati nel testo:
· http://www.cru.uea.ac.uk/~e118/Fezzan/fezzan_home.html
· Louis Werner. Libya’s Forgotten Desert Kingdom. Saudi Aramco World May/June 2004 , pp.8-13
· Gabriel Camps. Les Garamantes, conducteurs de chars et bâtisseurs dans le Fezzan antique. Clio.fr (2002).
· http://www.livinghistoryengineer.com/roman/north_africa.htm

Una postilla: in Home, il film appena reso disponibile gratis su YouTube, c’è una parte con splendide immagini sui campi irrigati ad acqua fossile nel deserto dell’Arabia Saudita. Stando alla descrizione, sono campi adesso abbandonati, perché le falde acquifere sono esaurite.
Il video è qui, la parte a cui mi riferisco è da 39:16 in poi.